Lo sappiamo a cosa stai pensando, probabilmente hai qualche perplessità attorno la SporTerapia. Te la immagini come una mera questione fisica, e magari pensi che sia inutile o che sia un’altra buffonata per speculare sulla disabilità. Nulla di più sbagliato. La SporTerapia è quanto più di vicino oggi si possa avere per la concretizzazione della relazione tra disciplina sportiva e autonomia sociale. E sì, anche tu puoi praticarla, ricevendone enormi benefici.
Cos’è la SporTerapia
In maniera abbastanza banale, possiamo definire la SporTerapia come una dimensione volta al raggiungimento del proprio benessere psicofisico. Si tratta di un’occasione nevralgica per (ri)costruire se stessi e rendere la propria mente ancora più forte. Certo, in linea generale i benefici dello sport sono conosciuti e assodati: meglio praticare attività fisica che condurre una vita sedentaria. Tuttavia, la SporTerapia approfondisce numerosi aspetti mentali dell’attività in essere.
Quali sono i benefici per la mente della SporTerapia
Insomma, va sottolineata l’importanza che la SporTerapia gioca per la nostra mente, soprattutto per quella di un atleta con disabilità. Se vogliamo, il ‘muscolo’ più importante per la nostra attività fisica è proprio il cervello. Facciamo un esempio. Sei una persona con disabilità che vuole intraprendere un’attività sportiva, ma non sei pienamente convinto per via della tua condizione: magari sei costretto in carrozzina o hai un arto mancante e, a causa di ciò, pensi di essere inferiore agli altri. Ecco, uno dei punti affrontati dalla SporTerapia riguarda la riscoperta di sé, non solo per una questione fisica, ma anche nella dimensione percettiva del proprio corpo. Di conseguenza, sono facilmente ipotizzabili alcuni dei benefici che puoi ricevere:
Migliorare la percezione del proprio corpo e delle proprie possibilità e abilità fisiche;
Diminuire l’ansia, lo stress e tutti i sentimenti negativi che ti inculcano l’idea che non potrai mai raggiungere un obiettivo;
Combattere contro la depressione;
Ritrovare una propria dimensione umana, come persona inserita nella società e nella comunità, sentendosi parte di essa;
Acquisire e migliorare il concetto di autonomia fisica e sociale;
Ottenere un atteggiamento positivo e proattivo di fronte alle difficoltà.
La SporTerapia non è solo questo
Ovviamente, i nostri discorsi toccano solo la superficie. Se vuoi informazioni più dettagliate e approfondite da uno specialista in merito, puoi rivolgerti alla nostra esperta Heyoka, la Dott.ssa Psicologa Sabrina Molino, che abbiamo anche recentemente intervistato.
Francesco Brizio è il nome che si cela dietro a Brazzo, cantante sordo di Taranto, ora trapiantato a Milano. A cavallo tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, l’artista si fa conoscere nel web con il brano Sono sordo mica scemo, nel quale Brazzo canta con voce e LIS (Lingua dei segni italiana). Sollevando, inoltre, una domanda interessante: una persona sorda può cantare? La risposta è sì.
Brazzo ci dimostra che la disabilità non è una fattore limitante, come si suppone. Anzi, diventa una condizione da inglobare nel proprio essere, al fine di abbracciare nuove esperienze, anche quelle che sembrano impossibili. Visto l’esempio di disabilità positiva racchiusa in questo ragazzo, lo abbiamo intervistato.
Ciao Brazzo e benvenuto. Puoi raccontarci la tua storia da rapper?
“Tutto è iniziato due anni fa. Essendo sordo non è una vera e propria passione: io sono una persona molto curiosa e questo mi ha spinto a fare qualcosa di nuovo. La mia è una sfida personale, poi col tempo è diventata una passione. È stato un lungo percorso, quello dell’approccio con la musica, che ho vissuto con l’aiuto di una logopedista, tra l’altro mia carissima amica. Poi, grazie allo studio Realsound ho raggiunto, il mio primo traguardo: cantare e realizzare i videoclip.
La prima canzone, Sono sordo mica scemo, è a tema sociale per la diffusione della Lingua dei Segni dopo il mancato riconoscimento dalla legge italiana. Tanti paesi nel mondo l’hanno assimilata e fatta propria, invece in Italia resta ferma, in bilico tra Camera dei Deputati e il Senato con un disegno di legge nel quale se ne chiede il riconoscimento al fine di assicurare la piena integrazione delle persone sorde alla vita collettiva. È per questo che ha voluto cantare e segnare insieme ai miei brani, per dare un messaggio forte, al fine di agevolare il riconoscimento della Lingua dei Segni.
Dopo Sono sordo mica scemo sono usciti altre canzoni: Il ritmo dell’estate, Volere è potere, Tutto il mondo è paese, Un egoista sotto il cielo di Ha Long e A noi va bene così. Sto progettando altre nuove canzoni che spero arrivino a tutti, affinché la gente capisca e scopra il nostro mondo”.
Siamo curiosi di una cosa: com’è possibile che un sordo riesca a fare musica? Utilizzi qualche tecnica particolare per l’apprendimento dei suoni?
“Prendete per esempio Beethoven, è stato un compositore geniale che ha rivoluzionato la storia della musica. Gli veniva dal cuore, nonostante non potesse sentire. Io non sento le voci in una canzone, ma avverto dei suoni forti, riesco a percepire le vibrazioni. Per seguire il ritmo uso il metronomo o una persona che mi dia il via e che mi faccia da ritmo con il movimento delle spalle”.
Brazzo, hai pubblicato numerosi brani, di pregevole fattura e nel quale si vede che migliori nell’esposizione canora. Quanto allenamento ci vuole per raggiungere certi livelli?
“Mi alleno e mi adatto in base al suono e cerco di memorizzare i tempi. Ogni nuova canzone è sempre una nuova sfida. È come per un cieco che percorre nuove strade”.
Quale delle canzoni che hai pubblicato ritieni sia la bandiera del tuo progetto artistico?
“Senza dubbio Sono sordo mica scemo. Ha dato un grosso impatto al pubblico e sono rimasti impressi nella mente. È un testo pieno di rabbia che la gente si ricorda facilmente, grazie al titolo provocatorio. Noi siamo sordi, non sordomuti e non siamo scemi. Il problema sta nella comunicazione, diciamo che ora ho fatto aprire gli occhi e la mente alle persone”.
Nei tuoi pezzi usi la LIS. A tuo avviso a che punto siamo in Italia per il suo riconoscimento?
“Un’associazione per tutela dei sordi sta lottando per ottenere i nostri diritti, e abbiamo anche raccolto la petizione sul riconoscimento della LIS. Credo che ci siamo quasi, ma non vogliamo illuderci ancora. Stiamo lottando dagli anni ’80. Immaginate quanta pazienza abbiamo avuto. Per noi è fondamentale che venga riconosciuta la lingua dei segni, questa consente al bambino sordo di sviluppare abilità linguistiche e intellettive prima dell’acquisizione della lingua parlata.
Se non ci sono scuole con assistenti alla comunicazione o sostegni educativi, il bambino sordo rischia di rimanere isolato e apprendere poco dalle attività scolastiche. Anche fuori abbiamo difficoltà in caso di emergenza o alcune importanti commissioni o riunioni di lavoro. Sono tante le cose che mancano e ci siamo sempre arrangiati da soli”.
Quindi possiamo dire che, per te, la disabilità non è stata un limite.
“Per me la disabilità vede oltre i limiti, sono gli altri che si pongono un limite. Noi ci sfidiamo e superiamo ogni problema trovando sempre delle soluzioni, e ci arricchiscono sempre di più”.
Noi di Heyoka vogliamo condividere il concetto della disabilità positiva. Per te, cos’è la disabilità positiva?
“La nostra disabilità è una forza che gli altri faticano a percepire. Noi abbiamo un senso in meno, ma anche altri sensi più sviluppati di chiunque altro. Noi vediamo disabilità in un’altra prospettiva, con una positività che non tutti vedono o capiscono”.
Disabilità positiva che riscontriamo anche in un altro progetto al quale collabori, Mai Dire Sordomuto. Di cosa si tratta?
“Mai Dire Sordomuto nasce con lo scopo di offrire un senso di parità, vogliamo dimostrare che anche noi sordi siamo capaci di elaborare, sviluppare varie cose come le persone udenti. Spesso vedono la sordità come un limite, noi con ironia vogliamo abbattere la barriera della sordità, della disabilità.
Nessuno al mondo è superiore e nessuno inferiore, ognuno ha un proprio talento, siamo tutti diversi ma allo stesso tempo uguali e per questo, per noi, è importante il rispetto di quello che siamo. Il nostro scopo è anche rendere tutti consci dell’esistenza della LIS, e per farlo mostriamo le positività dell’essere sordi tramite un sana e positiva risata, facendo vedere a tutti che per noi non è un peso”.
La domanda è d’obbligo: è possibile scherzare con la disabilità?
“Noi riteniamo che si possa scherzare con la disabilità, ma ci teniamo a dire che è importante farlo nel modo giusto: ad esempio noi usiamo l’ironia che porta alla riflessione e non facciamo mai scherzi pesanti e non lo facciamo con cattiveria, la presa in giro è sbagliata.
Inoltre abbiamo scelto la comicità per agganciare tutti alla tematica. Se non ci scherzassimo mai su, diventerebbe un argomento molto lontano dalle conversazioni quotidiane, ecco perché la decisione della produzione dei nostri video comici. Vogliamo anche dare alla vita una inclinazione leggera, senza dare un peso a nessuno, anche se ovviamente al mondo abbiamo opinioni diverse. Come direbbe Charlie Chaplin, ‘un giorno senza sorriso è un giorno perso'”.
Brazzo, ti senti di lanciare un messaggio alle persone disabili che si autolimitano perché condizionate da sentimenti destabilizzanti?
“Attraverso i nostri video, non abbiamo un solo messaggio specifico da lanciare, ma sono tanti diversi messaggi che ognuno può interpretare a modo proprio. La nostra è una strada verso l’approvazione della LIS e l’accettazione dei ‘difetti’ rivolto al mondo.
Dunque sì, abbiamo un messaggio da dare alle persone con disabilità: pensate al colore dell’arcobaleno e non al nero quando vi troverete di fronte ai problemi. La disabilità può essere arte, un motivo per mandare avanti il futuro. Siamo noi il senso della vita, gli altri non sono nulla, nulla da lanciarci parole addosso. Saranno invidiosi di noi? Ma chi ci insulta è una persona piena o vuota? Non fermatevi all’ignoranza, lottate affinché vi si conosca per quello che siete e per la vostra pienezza e bellezza data anche dalla vostra disabilità”.
Il nome di Greta Thunberg sta rimbalzando ovunque. Se ancora non ne aveste sentito parlare, ecco il quadro generale. È una sedicenne svedese che, ogni venerdì dall’agosto dello scorso anno, sciopera di fronte al parlamento del suo paese per chiedere maggiore attenzione e rispetto nei confronti del clima mondiale e degli accordi di Parigi.
Greta Thunberg ha la Sindrome di Asperger, disturbo imparentato con l’autismo che, a seguito degli scioperi internazionali dello scorso 15 marzo, è divenuto un tema sul quale dibattere, per forza di cose. Riuscendo, almeno nel nostro paese, a divenire un argomento di discriminazione umana.
La doppia lotta di Greta Thunberg
L’Huffington Post, citando lo Young Post, riporta alcune dichiarazioni di Greta Thunberg riguardo la correlazione tra la sua condizione e le sue battaglie ambientali. “Non credo sarebbe stato possibile senza – ha raccontato -, lavoro e penso in maniera un po’ diversa”.
Ecco che la parola diversità entra nel dibattito nazionale. Tanto che partono le dichiarazioni più disparate. Anche quelle di Maria Giovanna Maglie, intervenuta in radio a Un giorno da pecora: “Adesso non si può parlare male di Greta perché mi hanno detto che ha la sindrome di Asperger, e allora a quel punto il politically correct e il buonsenso mi vietano di dire quello che avrei detto se fosse stata sana: che l’avrei messa sotto con la macchina”.
La lotta di Greta Thunberg, dunque, diventa duplice. Non solo nel richiamare le vecchie generazioni a una maggiore cooperazione con le nuove per la salvaguardia del pianeta. Ma si trova anche a combattere con i sentimenti conservatori che inquadrano la società in base a delle etichette, nella quale ogni persona appartiene a una determinata categoria. E se tale categoria non rappresenta i canoni sociali condivisi, diventa qualcosa da disprezzare e demonizzare.
Così, la scrittrice ci riporta indietro nel tempo, agli anni del “guarda quell’handicappato”. Concetti e stereotipi medioevali che purtroppo ancora persistono. Pensando di trovare linfa vitale nella democratizzazione del parlare. Quando, in realtà, la democrazia sta nell’esprimere un concetto con fondamento culturale, e non per attaccare verbalmente il prossimo senza ritegno.
Se proprio volessimo parlare della diversità
Visto che l’Asperger di Greta Thunberg è stato più volte tirato in ballo, parliamone. Perché sì, che vi piaccia o meno, la diversità esiste e sotto varie forme. Non solo a titolo di gender, ma anche nel comparto sociale della disabilità. Scriviamo ‘comparto’ in quanto l’integrazione culturale della disabilità è ancora lontana dalla sua realizzazione.
Tuttavia, ci pensa Greta a sottolineare l’importanza della sua diversità, senza la quale non avrebbe combattuto così veemente tali battaglie climatiche. Il suo esempio è ciò che noi di Heyoka vogliamo esprimere ogni giorno: la disabilità positiva. Cioè, andare oltre al concetto stringato che si cela dietro una condizione, ma scoprire che ogni individuo ha delle potenzialità enormi che non aspettano altro di essere espresse.
Se proprio la volessimo tirare in ballo, quindi, dovremmo solo elogiare la disabilità dell’attivista svedese. Perché, nel suo razionalizzare in maniera diversa, è riuscita a impattare nel contesto internazionale in maniera devastante. Quindi, favorevoli o contrari alla sua campagna di sensibilizzazione, va ammesso lo strapotere mediatico che, da sola, Greta Thunberg è riuscita a ottenere. E sì, con la Sindrome di Asperger.
E se non ci riflettessimo troppo?
Tuttavia, una chiosa da lasciare ai posteri la dobbiamo fare. Perché, se oggi siamo qui a elogiare la diversità di Greta Thunberg, è anche a causa di chi pensa che la disabilità sia da denigrare. Una condizione che, il più delle volte, viene bollata come limite umano che rende incapaci. Incapaci e basta. Poiché, avere qualcosa in meno, ti rende incompleto e non in grado di dare un apporto significativo alla società.
Vale la pena sottolineare tutto ciò. In quanto la giovane svedese è riuscita a raccogliere adesioni in tutto il mondo grazie alla sua tenacia, mossa anche dal proprio stato, contro tutte le etichette possibili. Etichette che, guarda caso, sono nate all’indomani dei fatti del 15 marzo 2019. Come se la lotta ideologica mossa da chi viene catalogato come non in grado di essere inserito nella società, possa muovere paure antropologiche contro chi idealizza una società composta da individui uguali in ogni caratteristica.
Scimmiottare giudizi negativi riguardo alla sua sindrome di Asperger non aiuta nessuno: né chi vuole sposare la causa della piccola svedese, né chi vuole migliorare le proprie coscienze umane. Quindi, sì, viva la diversità di Greta. Rammentandoci che non è l’unica diversità positiva esistente. E che la diversità in sé non è un problema da tirare sotto con la macchina.
Anche i caregiver vanno in vacanza. E non è una notizia dell’ultima ora. Tuttavia, bisogna fare una precisazione. Oggi come oggi, soprattutto nel contesto italiano, il caregiver non è regolarmente disciplinato dalla normativa vigente. Molto spesso, infatti, è un ruolo lavorativo assunto da un parente del paziente stesso. In molteplici casi, il paziente in questione è un anziano, una nonna o un nonno, una mamma o un papà. Insomma, figli e nipoti che ricoprono il ruolo di assistente domiciliare (anche a tempo pieno) per aiutare il proprio familiare.
Se il caregiver desidera il riposo
Tuttavia, come in ogni lavoro, anche il caregiver può soffrire di stress e stanchezza. Se pensiamo, poi, che le mansioni richieste sono molteplici, differenti e di vario stampo fisico-psicologico, possiamo ipotizzare un affaticamento abbastanza singolare. E dunque, non c’è niente di male a desiderare di riposarsi un po’, magari con una vacanza di qualche giorno per recuperare le energie.
Ma la difficoltà nel realizzare ciò risiede nella responsabilità che si ha nei confronti del proprio paziente/familiare. Di fatto, il caregiver sente la necessità di aiutare tale persona e perciò posticipa continuamente il momento del riposo. Tuttavia, esistono delle soluzioni apposite in merito. Perché non solo il caregiver può andare in vacanza, ma anche l’anziano.
Sì, esistono soggiorni per anziani non autosufficienti
Ebbene sì, esistono villeggiature pensate e realizzate appositamente per gli anziani che necessitano di cure specializzate. Grazie a queste strutture, infatti, il caregiver familiare viene sostituito da figure lavorative professionali che si prenderanno cura del paziente, rendendogli leggero e spensierato il soggiorno. Per arrivare alla prenotazione, comunque, vanno superati diversi step.
Caregiver, accetta di andare in vacanza
È inutile che procrastini: se senti il bisogno di riposare, prenditi una vacanza. Prima di tutto, infatti, devi ammettere di aver accumulato molto stress durante il tuo lavoro, e il fatto che devi liberartene grazie a del meritato riposo.
Parla con il tuo paziente/parente
Bene, ora la parte più ostica. Devi parlare con il tuo paziente/parente della necessità che hai di prenderti qualche giorno di riposo. Tuttavia, ricordati di sottolineare che non sarai il solo a staccarti dal consueto incedere quotidiano, ma il tuo stesso familiare potrà vivere una nuova esperienza grazie ai villaggi sopracitati. Spiega a lei/lui le potenzialità di un’avventura di questo tipo, enfatizza le possibilità benefiche a cui si va incontro.
Ovviamente, le situazioni vanno studiate caso per caso. Basti pensare che vi sono contesti più difficoltosi, come nel caso dei malati di Alzheimer. Per ottemperare a queste esigenze, vi sono degli enti o delle strutture specializzate nell’accompagnare la persona al cambio di routine. Insomma, una soluzione la si trova sempre.
Bene, ora si parte… insieme
L’obiettivo, quindi, è univoco: andare in vacanza insieme. Perché l’anziano non deve sentirsi un oggetto da predisporre in un angolo e il caregiver non deve razionalizzare il proprio operato come malefico. Entrambi, di fatto, hanno bisogno di staccarsi un po’ dalla quotidianità, e un periodo di riposo può solo che giovare. In questo modo, si potrà lavorare in un contesto familiare più rilassato e tranquillo, libero dallo stress e dalla stanchezza.
Il significato di resilienza risiede nella capacità di saper affrontare le avversità che la vita impone. Come? Grazie all’aiuto di una gigantesca forza interiore. Metaforicamente, rammenta l’immagine della fenice: dalle sue ceneri, rinasce sempre più forte. La parola deriva dal verbo latino resilire, formatosi dall’aggiunta del prefisso re- al verbo salire, con il significato di “rimbalzare” o “contrarsi”. In pratica, la resilienza è la capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi.
Negli studi di ingegneria, l’etimologia di resilienza indica la capacità di un metallo di resistere alle forze impulsive che gli vengono applicate. Sul lato umano, invece, riguarda l’attitudine a reagire a urti o eventi traumatici che la persona deve affrontare. Pensiamo, ad esempio, ai cambiamenti che avvengono nel nostro corpo a fronte di un trauma esterno oppure ai momenti di ansia e di depressione che ci possono condizionare. Ecco, la resilienza ci aiuta ad affrontare tutto ciò nella maniera più pragmatica possibile.
Così nella vita, così nello sport: addestra la resilienza
La vita semplice non esiste, ognuno di noi deve fare i conti con svariate difficoltà. La resilienza entra in gioco nel momento in cui, all’apice dello stress, la nostra mente è chiamata a non cedere. Ovviamente, limiti fisici e mentali permettendo, a seconda della propria “finestra di tolleranza”. Ad ogni modo, raggiungere obiettivi insieme a questa facoltà, aumenta la propria autostima.
Questi aspetti non valgono solo per la quotidianità, ma anche per lo sport. Di fatto, si tratta di un aspetto psicologico molto importante nell’ambito sportivo. Pensiamo agli atleti più conosciuti al mondo che, dopo un grave infortunio, si rialzano e continuano a sorprenderci con traguardi impressionanti. Ecco, in quel caso la resilienza ha funzionato, è affiorata in tutto il suo splendore.
Non si tratta prettamente di una dote riservata a pochi, in quanto la resilienza può essere allenata. Sostanzialmente, bisogna puntare su tre obiettivi per rendere concreta questa capacità:
identificare e modificare le valutazioni erronee che la nostra mente crea in momenti di difficoltà;
aumentare il self-control;
Migliorare la connessione tra mente e corpo.
Tre pratici suggerimenti volti all’affermazione della resilienza, tenendo sempre in considerazione i limiti umani ai quali ognuno di noi risponde.
Conosciamo persone resilienti nello sport
Nel mondo della disabilità sportiva esistono fulgidi esempi di resilienza. Pensiamo, ad esempio, ad Annalisa Minetti, che a 18 anni scopre di essere malata di retinite pigmentosa e degenerazione maculare, condizione che non l’hanno fermata dal divenire cantante affermata e atleta paralimpica, il cui ultimo risultato è il nono posto nel paraciclismo dei Mondiali in Svizzera 2015.
C’è anche Alberto Luigi Simonelli, un’atleta paralimpico di Tiro con l’Arco. La sua malattia, la paraplegia, lo ha ridotto in carrozzina ma non lo ha mai fermato: alle scorse Paralimpiadi di Rio, ha conquistato un argento nella gara individuale di compound. Infine, spazio anche a Fabian Mazzei, atleta paralimpico numero uno in Italia di tennis in carrozzina, una carriera caratterizzata da 56 titoli di campione italiano, 72 vittorie Internazionali tra singoli e doppi, quattro partecipazioni alle Paralimpiadi (da quelle di Sydney 2000 fino ai Giochi Paralimpici di Londra 2012) e a 16 mondiali. Insomma, la lesione midollare non l’ha fermato, come tanti altri atleti, le cui storie sono raggruppate in una sezione apposita di Ability Channel.
Un mese fa la Mattel ha annunciato la messa in commercio della Barbie disabile. In pratica, si tratta della consueta e nota bambola a cui è stata aggiunta una carrozzina, delle protesi alle gambe e una rampa da utilizzare per accedere dove vuole. Sarà disponibile da giugno 2019 negli USA al prezzo di 20 dollari.
Di per sé, può sembrare una semplice notizia. Tuttavia l’arrivo della Barbie disabile nasconde un potenziale culturale enorme. E dobbiamo essere pronti a intercettarlo.
La Barbie disabile è cultura
Il discorso di queste righe si lega molto a quanto detto in occasione della Festa delle Donne. Ogni cultura ha un proprio mondo dell’arte, nel quale esistono canoni e regole accettate e condivise da una società. Perciò, sono gli stessi componenti della collettività a decidere cosa sia convenzionale e cosa no. Quindi, i loro giudizi regolano l’immaginario collettivo. Dunque, se uno di questi attori cerca di riscrivere i canoni presenti, starà anche al pubblico saper reagire positivamente per valorizzarne l’operato.
In pratica, se la Mattel vuole far entrare la disabilità nell’immaginario collettivo, deve essere nostro impegno socioculturale accettare e condividere tale precetto. E non unicamente perché si tratta del lavoro di un’azienda internazionale di ampia risonanza, ma perché si cerca di includere nuove regole iconiche riguardo a ciò che compone la società stessa. In questo caso, la disabilità.
Il disabile è società
Sì, questa frase può risultare banale. Eppure, la persona con disabilità fa parte della società. Ed è giusto idealizzare tale canone nella nostra cultura. Accettare il disabile come regola convenzionale. La Barbie disabile si muove verso questo obiettivo. Cioè, migliorare la nostra consapevolezza sociale e culturale, senza troppi fronzoli. Anzi, implementando sottotraccia ulteriori temi. Come la rampa, che sensibilizza l’opinione pubblica sulle barriere architettoniche (da abbattere).
Si inizia dall’infanzia
Recentemente, è divenuto noto il caso di un libro di scuola nel quale si realizzava un gender gap mostruoso tra le mansioni quotidiani di uomo e di una donna. Il tutto ha sollevato polemiche attorno al modello scolastico al quale i più piccoli si avvicinano. Che, in pratica, è il primo contatto con la cultura trasmessa.
Ecco, così facendo la Barbie Disabile entra anche in questo campo. Cioè, parte dai più piccoli. Insegna loro l’importanza della diversità, che esistono persone di vario tipo nel nostro mondo e che sono parte integrante della società. Riscrivendo, quindi, il modello ideale che vede sopravvivere gli stereotipi medievali.
Una Barbie per i disabili
Ovviamente, la Barbie Disabile non è indirizzata solo all’immaginario collettivo. Ma anche – e soprattutto – ai bambini con disabilità, che stanno cominciando a sviluppare l’introspezione verso la concezione di sé. Lo sviluppo del bambino, infatti, coincide con la maturazione della consapevolezza del proprio corpo.
L’esistenza di giocattoli e/o modelli che facciano risultare la disabilità come un canone comune, può impattare positivamente nel percorso psicologico di crescita di una creatura. Realizzando sostanzialmente uno scopo importante: l’integrazione umana, sia in termini sociali che estetici.
Oggi è 8 marzo, e quindi siamo arrivati alla Festa delle Donne. Una giornata internazionale ciclica in Italia dal 1922 che impone più di una riflessione. Di fatto, come ogni anno, l’opinione pubblica è invitata a valutare le condizioni delle donne nella società attuale. E, negli ultimi anni, diversi tabù prima indistruttibili sono stati spezzati. Pensiamo, ad esempio, all’emersione della differenza salariale tra uomo e donna.
Quest’anno noi di Heyoka abbiamo realizzato un approfondimento su una questione socioculturale ampiamente dibattuta. E che, tuttavia, risulta ancora preda di svariati preconcetti: la bellezza universale. Cioè, la capacità di coinvolgere vari concezioni di bellezza nell’immaginario collettivo, che gioca un ruolo fondamentale nell’accettazione dei termini estetici di una società.
Festa delle Donne: perché è importante parlare di bellezza universale
Per capire la rilevanza di parlare della bellezza universale durante la Festa delle Donne, vale la pena scomodare Howard Saul Becker. È un sociologo statunitense che ha definito con il termine ‘mondi d’arte’ l’insieme di convenzioni artistiche, estetiche e culturali facenti parte di una società. Sia quelle accettate e condivise, sia quelle anticonvenzionali.
Dunque, destrutturando il concetto ‘anticonvenzionale’, si raggiungerebbe un contesto oggettivo per la diffusione della bellezza universale. In sostanza, si vuole andare al di là delle consuete e desuete regole sociali preimpostate e rendere diversi canoni assimilabili nella sfera della bellezza. Perciò, bisogna spezzare il modo in cui la società monopolizza un determinato aspetto culturale. In questo caso, la forma fisica della donna: figura filiforme, forme ben definite, sinuosa, magra, voluminosa e via discorrendo.
Accezioni che, con l’esplosione del web, sono un po’ venute meno. Grazie soprattutto all’exploit di nuovi modelli estetici inglobati nell’immaginario collettivo. Vi dice niente il movimento curvy? Un semplice simbolo estetico che, tuttavia, è riuscito a imporre nuovi approfondimenti sulla concezione di corpo, in termini mediatici e nel benessere psicofisico personale.
Una dimensione importante anche per la disabilità. Facciamo due esempi. C’è Winnie Harlow (all’anagrafe Chantelle Brown-Young), modella con la vitiligine, una malattia che le ha donato un corpo macchiato da chiazze bianche. Vedasi anche Viktoria Modesta, popstar e modella lettone senza una gamba che, con il video Prototype, include la disabilità nel modello di bellezza. E, di conseguenza, nel modello di società.
Body Positive CatWalk 2019: flash mob a Milano
Lo scorso 3 marzo, a Milano, è andato in scena il Body Positive CatWalk. In pratica, un flash mob contenente messaggi riguardanti la valorizzazione e l’accettazione del proprio corpo. Andato in scena davanti al Duomo, l’evento ha riunito persone di varia natura, età, forma fisica, orientamento sessuale, disabilità e così via. Una manifestazione a cavallo tra la Fashion Week e la Festa delle Donne per enfatizzare l’importanza di includere vari canoni estetici nel concetto di bellezza.
La manifestazione è stata organizzata dalla modella curvy e influencer Laura Brioschi, ufficializzando anche la fondazione dell’Associazione no profit BODY POSITIVE CATWALK. L’obiettivo di questa nuova realtà? Creare eventi internazionali improntati sulla maggiore accettazione del proprio corpo, qualunque esso sia.
Due Heyoka protagoniste al flash mob
All’evento milanese hanno preso parte anche due nostre Heyoka, Benedetta De Luca e Nina Sophie Rima, le quali ci hanno detto la loro riguardo al concetto di bellezza universale.
De Luca: “Imparate ad amarvi”
“Questa bellezza tanto stereotipata che la società continua ad imporci ha stufato – inizia Benedetta De Luca -. Ha stufato l’idea che ognuna di noi deve sentirsi perfetta per poter essere accettata e all’altezza. Siamo stufe di dover nascondere quella cellulite tanto odiata, quelle smagliature e quei chili in più o in meno. Siamo tutte dannatamente belle e femminili!”.
Partecipare al flash mob, quindi, è stato un campanello d’allarme per chi vuole il cambiamento. “Eravamo in tante e tutte delle gran fighe – racconta la salernitana -. Abbiamo messo ‘a nudo’ il nostro corpo e soprattutto le nostre insicurezze, i nostri dubbi , incertezze e paure! Ma l’abbiamo fatto per poter abbattere stereotipi e pregiudizi, per far capire che ogni donna è bella nella sua diversità. Che ognuna di noi è bella perché è unica. Io ho sfilato fiera sulla mia sedia a rotelle e con le mie cicatrici sulle gambe piccoline”. E, infine, un augurio: “Ragazze, imparate ad amarvi davanti allo specchio!”.
Benedetta De Luca durante il flash mob del 3 marzo 2019
Rima: “Insieme si possono cambiare le cose”
“Non vi nascondo che quando si è trattato di svestirsi l’ansia è cominciata a salire e ho temuto di sentirmi troppo a disagio – ci ha confessato Nina Sophie Rima -. Ma vedendo la forza di così tante ragazze tutte assieme, unite nella stessa ‘battaglia’ contro gli stereotipi, la paura è scomparsa, ed e rimasta solo tanta voglia di lasciare un segno”.
Un segno che si spera possa restare nel tempo. “Eventi così dovrebbero esserci più spesso, le emozioni che ho provato sono state indescrivibili. È bello sapere che la fuori non siamo totalmente soli, che c’è sicuramente qualcuno con le tue stesse paure ma voglia di farcela. Credo che solo così, solo insieme si possano davvero cambiare le cose”. La chiusura è affidata a un consiglio: “Non nascondetevi, siate curiosi siate impulsivi la vita saprà ricompensarvi”.
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