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Treetop Experience, l’accessibilità lungimirante nella natura danese

Sì, anche le persone con disabilità possono attraversare e ammirare la natura danese grazie al Treetop Experience. Si tratta di un progetto architettonico inaugurato il 31 marzo 2019, dopo tre anni di progettazione. La realizzazione porta la firma dello studio danese EFFEKT, le cui mani hanno lavorato nella foresta protetta di Gisselfeld Kloster Skove, vicino a Haslev, un paesino situato a sud di Copenaghen. Il committente, il Camp Adventure Park, ha voluto fortemente un’opera orientata a un’offerta ‘for all’, cioè la creazione di uno spazio fruibile da visitatori di qualsiasi età e condizione fisica. Ancor prima della sua nascita, la struttura ha vinto l’Icon Awards 2017 nella sezione Visionary Architecture.

Le caratteristiche del Treetop Experience

Come riporta il numero 585 di Abitare, il Treetop Experience è “un percorso naturalistico che si snoda tra i boschi e culmina in una torre panoramica a spirale alta 45 metri”. In particolare, l’itinerario si sviluppa “da una vecchia fattoria” per poi snodarsi “tra gli alberi a diverse quote, fino a raggiungere una scultorea torre di osservazione“. Tutto il percorso misura 900 metri.

A rendere unico il Treetop Experience danese è proprio la sua ‘caratterizzazione a rampa’. Com’è possibile vedere anche dalle pic dell’account Instagram del camp, non vi sono barriere architettoniche di alcun tipo. Anzi, il percorso è totalmente liscio e privo di qualsivoglia scalino, in grado così di accogliere anche le persone costrette su ausili a quattro ruote o con difficoltà deambulatorie.

Treetop Experience in Danimarca, Copenaghen, accessibile ai disabili

L’ecosostenibilità al servizio dell’integrazione

L’attuazione del Treetop Experience è avvenuta nella piena osservanza del paesaggio circostante. Per esempio, l’intero fabbricato è stato plasmato usando legno reperito in situ. Inoltre, Lifegate sottolinea il forte richiamo a una connessione con l’ambiente circostante grazie alla scelta dei colori, quali legno e acciaio brunito “per massimizzare l’armonia con la foresta stessa”. In aggiunta, il tragitto è stato munito di numerosi punti di consapevolezza. In sostanza, “chi deciderà di percorrere questo trekking verticale potrà consultare del materiale informativo sul bosco, esposto in apposite piazzole di sosta“.

Perché il Treetop Experience è un encomiabile esempio

Portare l’accessibilità nella natura è una missione quanto mai complessa da affrontare. Tuttavia, il Treetop Experience mostra chiaramente la tangibile opportunità che siamo chiamati a realizzare. Una costruzione di questo tipo assume tutti i canoni d’encomio da cui partire per migliorare la nostra società. Insomma, se è stato possibile rendere inclusivo un pezzo di natura come questo, anche le metropoli possono imparare.

Fonte immagine: pagina Facebook Camp Adventure Park

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Community Network Approach, un modello per trattare l’autismo (e non solo)

Il Community Network Approach è un modello di intervento integrato, di tipo cognitivo–comportamentale, che favorisce la qualità della comunicazione e lo sviluppo delle abilità sociali e delle autonomie della persona presa in carico, utilizzando un lavoro di rete e avvalendosi di professionisti con diverse qualifiche.

Come nasce il Community Network Approach

La sottoscritta, psicologa, specialista in psicologia clinica e psicoterapia individuale e di gruppo, presidente della cooperativa sociale Tutti giù per terra Onlus, con la sua equipe, supervisionata dai prof. Michele Zappella e Ron Larsen II, ha elaborato il modello. Il Community Network Approach, ai suoi esordi, è stato condiviso anche con diversi centri di ricerca, studio e cura, quali l’ospedale pediatrico Bambino Gesù, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese-Policlinico Santa Maria alle Scotte e l’Università degli studi di Siena.

Le peculiarità dell’approccio cognitivo-comportamentale

La particolarità di questo modello è che, essendo molto flessibile, ha permesso di integrare al suo interno le parti migliori di altri metodi specifici e validi per gli autismi, ma anche per molti disturbi dell’età evolutiva. Il Community Network Approach pone particolare attenzione all’aspetto relazionale/affettivo, che ha un impatto positivo anche sulla sfera personale e sociale. Un’altra caratteristica importante consiste, inoltre, nell’essere realizzato attraverso un progetto individualizzato e centrato sulla persona, sul suo mondo e sul suo progetto di vita.

I punti fondamentali dell’approccio sono la relazione basata sulla fiducia, l’aiuto visivo e l’organizzazione spazio temporale delle attività. Tutto ciò comporta una facilitazione degli apprendimenti naturali. Il Community Network Approach viene definito modello di rete perché si ottimizzano le risorse presenti (in primis la famiglia, la scuola, le attività sportive).

Cosa si acquisisce

Il modello prevede un’analisi puntuale del bisogno del bambino/ragazzo e del suo contesto di riferimento, attraverso un’attenta valutazione funzionale e un’analisi della domanda. Si costruisce così una risposta che segua lo sviluppo del bambino ed il reale bisogno nello specifico momento evolutivo. Tale risposta può però essere messa in discussione, a seguito di un monitoraggio e/o supervisione clinica (attività entrambe periodiche), che ne evidenzi la necessità.

Gli obiettivi

Il Community Network Approach vuole “cucire addosso” alla persona con bisogno speciale una strategia che sia nel contempo sociale e sanitaria, attingendo da metodologie approvate dalle linee guida nazionali specifiche per ciascun bisogno riscontrato, ovvero evidence based.

Gli strumenti

Relativamente ai disturbi dello spettro autistico e sindromi correlate, il Community Network Approach prevede l’utilizzo di:

  • TEACCH, ausili specifici – shoebox tasks;
  • lavoro intenso sulla relazione Attivazione Emotiva o Reciprocità Corporea;
  • comunicazione aumentativa–alternativa (CAA);
  • educazione cognitivo affettiva (cat-kit);
  • Denver Model e intervento sulle abilità sociali.

Non solo autismo

community network approach

Il Community Network Approach può essere declinato, oltre che per i disturbi dello spettro autistico e sindromi correlate, anche per diversi disturbi della fase evolutiva:

  • i disturbi dell’apprendimento (DSA);
  • i Bisogni Educativi Speciali (BES), che comprendono anche difficoltà dovute a svantaggio sociale, culturale o scarsa conoscenza della lingua e della cultura italiana;
  • disturbi alimentari psicogeni;
  • disturbi della relazione e della regolazione (iperattività).

Dopo una valutazione funzionale, il trattamento specifico sugli apprendimenti segue una presa in carico globale, che, a seconda dei casi, prevede diverse modalità di valorizzazione ed espressione (laboratorio di teatro, attività di volontariato, interventi assistiti con gli animali).

Articolo di Fabiana Sonnino

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Quando e perché scegliere l’idrokinesiterapia?

Per coloro che non hanno mai sentito parlare di idrokinesiterapia, darò qualche semplice nozione. Con il termine idrokinesiterapia indichiamo una terapia che struttura dei movimenti (kinesi) dai più semplici ai più complessi in acqua (idros).

Cenni storici sull’idrokinesiterapia

L’acqua è stata usata per scopi terapeutici fin dall’antichità, già Ippocrate ne spiegava gli effetti terapeutici, a seguire i romani con l’uso delle terme. Nel XVIII secolo incominciarono a venir fuori studi scientifici sull’idroterapia, che analizzavano le proprietà chimiche dell’acqua e gli effetti che davano su alcune patologie. Fino alla metà del XX secolo in cui vennero considerate anche le caratteristiche fisiche dell’acqua, per il trattamento delle patologie dell’apparato locomotore.

Cosa si fa con l’idrokinesiterapia

Usiamo l’idrokinesiterapia sia per patologie ortopediche che neurologiche. L’idrokinesi utilizza le leggi fisiche dell’acqua a scopo terapeutico, relazionandosi con tre elementi fisici principali:

  • Temperatura (deve variare tra i 30° e i 33° );
  • Densità (che è superiore a quella dell’aria di circa 800 volte. Lavorando in microgravità, l’idrokiesiterapia gioca un ruolo fondamentale nelle patologie legate al dolore e alla compressione articolare);
  • Viscosità (crea un rallentamento nell’esecuzione degli esercizi da parte del paziente che garantisce il riapprendimento motorio e il controllo dei movimenti).

La mia esperienza nell’idrokinesiterapia

Sono dieci anni che faccio la fisioterapista a Roma, di cui otto che lavoro con la terapia in acqua, e i risultati riportati dai pazienti sono stati grandiosi in termine di efficacia, ma ancor di più in termini di tempistica. La grande rivelazione della terapia in acqua sta nel dimezzare i tempi riabilitativi dando la possibilità sia ad atleti che non a ritornare alle proprie attività sportive o lavorative in tempi molto brevi. Non solo, ridurre i tempi riabilitativi vuol dire anche ridurre i costi.

Ho conosciuto pazienti che mi hanno rivelato di aver trascorso ore – che sono diventate mesi – per tornare alle loro attività quotidiane, mentre, se avessero provato la terapia in acqua oltre a quella tradizionale, avrebbero ripreso più in fretta, spendendo anche meno soldi.

Il concetto chiave: la versatilità

La straordinarietà della terapia in acqua è la versatilità. Nella stessa terapia si lavora in globalità con tutto il corpo, recuperando l’articolarità perduta, la propriocettività, la muscolatura e la sicurezza nei movimenti.

Nelle terapie neurologiche, soprattutto, il paziente riesce a raggiungere obiettivi che con la terapia da lettino a “secco” non riuscirebbe, grazie ad esempio alla temperatura dell’acqua che favorisce il miorilassamento. Questo per il paziente è una grande spinta motivazionale, trova nell’ambiente acquatico grande soddisfazione e vede nel terapista e nel contesto di lavoro qualcosa di meno “sanitarizzato”.

L’acqua dà anche un imprinting psicologico ai pazienti, soprattutto chi ha danni irreversibili. Possiamo definirla davvero una terapia a 360°. Utilizziamo la terapia in acqua dai più piccoli ai più anziani e dura circa 50 minuti. Io preferisco lavorare singolarmente, altri colleghi lavorano anche in gruppo. La cadenza delle terapie va da una a due volte a settimana, in base alla necessità dei pazienti, e soprattutto va integrata alla terapia in studio. Ad esempio: due terapie a secco e una in acqua o viceversa, in base alla tipologia della patologia e ai tempi della stessa.

Perché fare idrokinesiterapia

Consiglio l’idrokinesiterapia a tutti i pazienti, anche a coloro che non hanno un buon rapporto con l’acqua, in quanto lavoriamo anche su questo, portando i pazienti a traguardi impensabili. La terapia è consigliata nei post-operatori poiché, essendo un ambiente microgravitario, permette anche a chi ha limitazioni di carico di lavorare subito sul recupero articolare, muscolare e sulle cicatrici grazie al micromassaggio, che crea l’acqua anche solo camminando in essa.

È quindi consigliata nelle patologie:

  • ortopediche delle principali articolazioni come spalla, ginocchio, anca, caviglia, ecc. e come fratture, lesioni tendine e legamentose, traumi contusivi e distorsivi, ecc.;
  • neurologiche: sclerosi multipla, emiplegie, paraplegie, parkinson, lesioni cerebbellari ecc.;
  • reumatiche;
  • vascolari;
  • e nei disturbi psicomotori dell’età pediatrica.
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Simoncino: “Bisogna far conoscere la disabilità alle persone”

Quando dici Simoncino, pensi subito a Mente Malata, un singolo rap diamante tra i video presenti su Youtube. Ma la carriera artistica di Simone Martucci – il suo nome di battesimo – non è mai stata solo quella canzone, ma è caratterizzata da diversi step, arrivando anche sul grande schermo. Nato a Tivoli il 3 giugno 1989, Simoncino è una persona con osteogenesi imperfetta (da non confondere con il nanismo). Tempo addietro abbiamo contattato il rapper per chiacchierare sul mondo dell’arte legato alla disabilità.

Simoncino, ti pesa un po’ questa tua eredità online?

“No. La musica la porto avanti, non come prima perché sto avendo un po’ di problemi personali. Sono anche demoralizzato dalla musica italiana, perché vedo che vanno avanti persone come la Dark Polo Gang che di concreto non hanno nulla. Le grandi cose commerciale che muovono l’industria della musica del paese, purtroppo, non portano avanti persone come me, che dicono le cose come stanno e raccontano la propria vita. La canzone può piacere come non piacere, eh. Però brani fatti a tavolino da queste lobby della musica non danno nessun messaggio, ma vendono biglietti. Sono demoralizzato e schifato. Fortunatamente non tutti sono così”.

Com’è cambiata l’arte di Simoncino nel corso della carriera?

“Credo di essere migliorato, dopo 7 anni che faccio musica. Io scrivo solamente quando mi sento ispirato. Magari anche alle tre di notte: mi alzo, accendo il pc, metto la base e scrivo. Se accade, è per realizzare la canzone che faccio uscire. Comunque spero di essere migliorato un pochino: da Mente Malata (che ancora oggi la gente canta) a Estate 2018 (l’ultima canzone pubblicata), metrica, flow e altre cose sono un bel po’ ‘in alto’ rispetto al passato. Ciò che racconto nella musica sono cose vissute, quello scrivo dipende dal momento che sto vivendo. Se sono tranquillo, non mi esce nessuna canzone contro lo Stato o qualcuno che mi abbia fatto del male”.

Per quanto riguarda la scena rap, c’è un buon artista da ascoltare e che porta innovazione?

“In realtà nel rap l’innovazione non dovrebbe mai essere portata, in quanto è nato come sfogo personale. Se hai qualcosa dentro, invece di fare danni in giro, prendi e scrivi una canzone. Ad esempio, la mia canzone Nessuno al mio fianco non è scritta bene. Come l’ho scritta, l’ho fatta uscire, senza modificarla. Anche se quello è un brano un po’ forte, nel periodo in cui stavo tentando il suicidio. Mi venne in mente Mirko ‘Er Gitano’, che era un fratello vero: un giorno ho rivisto la sua foto e fu come se mi dicesse ‘Non fare il mio stesso errore’. Così ho realizzato questa canzone.

Tornando alla domanda, non credo ci sia qualcuno che in questo momento stia portando avanti una cosa fatta bene. Tutti stanno cercando di commercializzarsi e fare i soldi. Il vero rap non è questo. Artisti come Saga, invece, un vero poeta di strada, sono persone non conosciute che non si vendono. Eppure lui potrebbe fare i soldi, perché è veramente forte. Però essere una persona vera e di cuore in Italia non ti dà soldi e successo”.

Per quanto riguarda la tua vita attoriale, come ti sei trovato nei panni dell’attore?

“Mi è piaciuto tantissimo, soprattutto fare Brutti e Cattivi. Mi sono trovato benissimo. Tuttavia devo ammettere che la mia parte è stata scritta su di me. Tra personaggio e realtà, il passo è breve. Non è che vado a fare le rapine, è ovvio [ride, ndr]”.

Diciamo che qualche caratterizzazione era tua.

“Sì. Inizialmente avevano scritto la sceneggiatura con un altro tipo di personaggio, sempre comunque basso, però più anziano e con altre caratteristiche. Quando invece hanno visto il video di Mente Malata, il registra e i produttori mi hanno scelto e hanno scritto la parte su di me”.

Secondo Simoncino, esistono ancora degli stereotipi nei confronti delle persone con disabilità che si approcciano al mondo dell’arte?

“Purtroppo sì. Io sono stato contattato anche da svariati registi per fare qualche parte un po’ stupida. Premetto, non è una questione di soldi: se faccio una cosa che mi piace, la faccio anche gratis. Ma se mi dai un milione di euro e mi chiedi di fare una parte ridicola, non la farei. L’onore di una persona non è in vendita. Ancora esistono tanti pregiudizi. Ad esempio, la persona bassa in Italia deve fare le parti sceme. Quando mi hanno proposto di fare Brutti e Cattivi, invece, mi è piaciuto subito il messaggio: cioè che la disabilità non ha limiti. Ovviamente se sei costretto a letto e non puoi muoverti è un altro discorso. Ma la disabilità in generale non ha limiti. Tu vedi gente sulla sedia a rotelle che gioca anche a basket, fanno di tutto. Volere è potere”.

In tempi non sospetti, anche l’Hollywood Reporter ha parlato proprio della denigrazione degli attori bassi in America. Come si può superare il concetto che una persona bassa o con nanismo non sia solo capace a interpretare ruoli legati alla propria statura?

“Aprendo la mentalità delle persone, e in Italia la vedo veramente difficile. Esistono molti limiti mentali. Ad esempio, se una ragazza fa determinate cose, è vista come ‘la peggio’. Magari, se vai all’estero, è semplicemente una persona disinibita e non c’è nessuna etichetta. Così la disabilità. Magari una persona con nanismo è molto più alta internamente di altri. Nel nostro paese c’è proprio una mentalità ottusa. Sono veramente poche le persone che hanno la mente giusta al posto giusto.

E qui si collega la nostra domanda sulla Disabilità Positiva. Per noi, ad esempio, è anche andare al di là dell’aspetto fisico di una persona.

“Però è difficile. Guarda me, una persona di 1 metro e 20… Prima una persona la devi conoscere”.

Certo. Per esempio, il rispetto per la dignità di un disabile in quanto persona passa anche se ‘gli dai dello stronzo’.

“Infatti: se uno è stronzo, è stronzo. Non è che se uno è disabile, allora è un poverino“.

Quindi, secondo Simoncino, qual è il significato della Disabilità Positiva?

“Non saprei proprio come risponderti. Sicuramente facendo conoscere la disabilità alle persone. Quando uno parcheggia sul posto invalidi senza permesso, non è mancanza di rispetto, è stupidità. Sei davanti a una persona che non sa come vive un disabile e perché esiste quel parcheggio. Magari alcuni non ci arrivano proprio, non hanno mai vissuto o toccato con mano la disabilità. Io mi avveleno a litigare con la gente per questo. Bisognerebbe dare più informazioni alle persone su come vive un disabile“.

Manca una cultura alla dignità della persona?

“Sì. Ci sono tante cose a cui magari uno non pensa. Ho un amico che le prime volte in giro con me diceva: ‘Sto facendo caso come tante cose che per me sono normali, per una persona con difficoltà sono un ostacolo’. Ad esempio, se devo andare a ritirare soldi allo sportello fuori alle Poste, dalle mie parti, ho solo uno sportello leggermente basso. Le altre zone sono tutte quante alte. E ancora, se devo citofonare è alto, se devo chiamare la fermata sul bus è alto. Qualsiasi cosa per una persona con disabilità può risultare difficile. Io non capisco perché in Italia, e anche nel resto del mondo, quando installano uno sportello alle Poste, non pensano che una persona bassa non riesca a ritirare i soldi. Se non ci pensa lo Stato, immagina la popolazione che non tocca con mano la disabilità delle persone”.

Fonte immagine: Deejay

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Essere attori con disabilità nel grande e piccolo mondo dello spettacolo

Oggi essere attori con disabilità ha tutto un altro sapore. Certi tabù o cliché sono infranti, e non c’è più una larga discriminazione. Anzi, se una persona con disabilità si mostra capace in questo lavoro, spesso diventa la prima scelta. Per questo, possiamo parlare di Disabilità Positiva. Anche se persistono (ancora) discorsi aperti legati al mondo degli attori disabili su grande e piccolo schermo.

Quando gli attori con disabilità erano vittime di stereotipi

Gli stereotipi sono duri a morire, anche nel mondo dello spettacolo. Tuttavia, vale la pena ammetterlo: qualcosa rispetto al passato è decisamente cambiato, siamo di fronte a una società internazionale differente. Per comprendere tale cambiamento, osserviamo brevemente la storia degli attori con nanismo, da sempre ‘denigrati’ nell’essere scelti semplicemente per ruoli cinematografici e televisivi riguardanti la loro statura (vi dice niente Gnome Alone?).

Recentemente, anche l’Hollywood Reporter ne realizzò un approfondimento. La discriminazione più tetra, però, è raccontata da The Munichkins of Oz, libro di Stephen Cox: i 124 Mastichini presenti nella pellicola del 1939 Il Mago di OZ furono acquistati da famiglie contadini. Acquistati, non scritturati. A complicare ulteriormente il quadro, fu l’autobiografia di Sidney Luft, il terzo dei cinque mariti di Judy Garland (la giovane Dorothy de Il Mago di Oz). Nella sua versione dei fatti, Luft parla di uno stupro alla moglie ad opera, sembrerebbe, proprio di un attore con nanismo. Accuse respinte con forza da Margaret Pellegrini, una dei Mastichini: “C’erano molti a cui piaceva bere qualche drink, ma niente sfuggiva di mano. Non c’era violenza o altro di questo tipo”.

Siamo di fronte a una società più inclusiva?

In questi anni i preconcetti attorno agli attori con disabilità sono ridimensionati. Spesso riconosciamo un artista prima per le sue capacità e poi per la sua disabilità. L’esempio più lampante riguarda Peter Dinklage, il Tyrion Lannister di Game of Thrones. Una figura selezionata per interpretare il ‘folletto’ della casata Lannister che, col passare delle stagioni televisive, ha assunto una caratterizzazione e profondità tale da divenire uno dei personaggi più amati della serie. L’attore stesso ne ha giovato, chiamato in causa in diverse altre pellicole di successo.

Ma da dove arriva tutta questa inclusione culturale? In parte dagli anni Ottanta (anche se, all’epoca, alcune pellicole erano molto denigratorie). Ricordiamo, ad esempio, Michael J. Fox, il cui Morbo di Parkinson non gli ha impedito di interpretare numerosi ruoli cinematografici anche dopo il successo di Ritorno al Futuro. Un altro è Robin Williams, a cui da bambino fu diagnosticata la sindrome da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD). Guardiamo anche all’Italia, perché abbiamo attori con disabilità di spessore. Una è Giovanna Vignola, presente nel film da Oscar La Grande Bellezza (2013). Senza dimenticarci di Simone Martucci, noto ai più come Simoncino per i suoi video rap su YouTube, per poi diventare attore nell’opera cinematografica Brutti e Cattivi (2017). Ognuno dei nomi sopracitati si è distinto per le proprie caratteristiche artistiche, e non per la propria disabilità.

Quando il ruolo è interpretato da un disabile

Sì, siamo di fronte a una Disabilità Positiva. Quando un attore con disabilità emerge grazie alla propria bravura, facciamo parte di una società che include una risorsa a tutti gli effetti. Pensiamo, ad esempio, a Micah Fowler, giovane americano con paralisi cerebrale, protagonista della serie tv Speechless nel ruolo di JJ DiMeo, un ragazzo disabile. Recentemente, inoltre, la Marvel ha fatto un’operazione simile, scritturando per il ruolo di Makkari (supereroina sorda del film Eternals) l’attrice sorda Lauren Ridloff, nota per essere Connie in The Walking Dead.

Cosa significa? Saper dare valore alla capacità, ai sacrifici e alle potenzialità degli attori con disabilità aiuta a considerare tali persone come individui. Cioè, rendere la disabilità parte integrante della società. La sottile differenza tra passato e presente sta tutta qui: scegliere la disabilità non solo perché serve un personaggio con quella condizione, ma in quanto certi attori con disabilità danno un valore aggiunto al film di riferimento.

Se il ruolo disabile passa a un normodotato

Resta comunque un discorso ancora aperto. Di fatto, sono in molti a storcere il naso nel vedere un normodotato interpretare una persona con disabilità. Nel film Un amore all’altezza (2016), ci fu un ampio dibattito riguardo alla preferenza di un attore francese di 183 centimetri, Jean Dujardin, per il ruolo di una persona di bassa statura. Qualcosa di simile capitò nel 2012, quando la no-profit Little People of America accusò la Universal di non aver chiamato attori con nanismo per uno dei film su Biancaneve. In Italia, una diatriba analoga nacque dopo Sei mai stato sulla Luna?, pellicola del 2015 con Neri Marcorè nei panni di uomo con ritardo mentale. Fu una delle tante occasioni in cui la comunità si divise tra la bravura dell’attore nell’interpretare un ruolo ‘diverso’ e chi chiedeva di scegliere tra attori con disabilità.

Cosa fare? Migliorare gli attori

Forse, un modo per sciogliere tutti i nodi del pettine c’è. Migliorare l’offerta degli attori con disabilità, dare loro eque opportunità di carriera e sensibilizzare il mondo (dello spettacolo e della società) a porre maggiore attenzione in chi mostra bravura, competenza e professionalità, sempre e comunque. Anche questa è Disabilità Positiva.